Ballet mécanique
di Dominique Païni – directeur fondateur des productions audiovisuelles et cinématographiques du Musée du Louvre
(Francia 1924, bianco e nero/colore, 16m a 18 fps); regia: Fernand Léger, Dudley Murphy; sceneggiatura: Fernand Léger; fotografia: Fernand Léger, Dudley Murphy, Man Ray; musica: Georges Antheil.
harlot, sagoma disarticolata, presenta il balletto meccanico. Una donna si dondola sull’altalena, in giardino. In uno spazio neutro, irrompono oggetti: una paglietta, dei numeri, bottiglie di vino, un triangolo bianco. Risplendono le labbra di Kiki, grandi quanto l’inquadratura. Dischi e sfere riflettenti roteano e oscillano; la superficie a specchio restituisce l’immagine di un uomo in piedi, e quella di un altro dietro la cinepresa. Moto pendolare di palle d’albero di Natale; casseruole, stampi per dolci e altri arnesi da cucina si animano di un moto vorticoso. Due occhi in primissimo piano si spalancano, poi le palpebre cadono; quindi le ciglia risultano sopracciglia, come prima e viceversa. Nel ballo d’oggetti emerge la testa d’un giovane, poi, nel ritmo più frenetico di bottiglie, bielle, triangoli/cerchi, numeri e macchina da scrivere e fogli di carta, appare un occhio sbarrato di meraviglia, che rotea e ammicca. In un esterno di luna park, un uomo scivola, una vettura corre, uno stantuffo in azione, una gigantesca pompa idraulica nel controluce. Come intermezzo, tre fruste da cucina in un numero di ballo. Una lavandaia sale faticosamente una scala col suo fardello di bucato, e quando ha raggiunto la cima si ritrova nuovamente al primo gradino: per ventuno volte. Una bocca sorride. Caratteri tipografici fluttuano, si rincorrono, si mascherano e fanno giravolte. La testa di Kiki come la faccia di un manichino, mentre un fantoccio la fissa sinistro. Batteria da cucina in gran parata, gambe di manichino con giarrettiera che eseguono un cancan, gli occhi chiusi di Kiki, bottiglie tarantolate dal montaggio. Charlot, stessa sagoma del prologo, si smembra e le membra si muovono per conto proprio. La donna dell’altalena, ancora nel giardino, annusa un fiore.
Sia nella storia del cinema che in quella delle arti plastico-figurative, generalmente si ritiene che La roue (La rosa sulla rotaia) di Abel Gance, o più esattamente la versione presentata al Salon Annuel de Cinéma nel 1923, costituisca l’ispirazione filmica e plastica di Ballet mécanique. Quella versione del film venne poi ‘ridotta’, su suggerimento del futurista Ricciotto Canudo, a ciò che Fernand Léger definì una “emozione plastica ottenuta attraverso la proiezione simultanea di frammenti di immagine a ritmo accelerato”. Canudo era ossessionato dal ritmo cinematografico. Presso il CASA (Club des Amis du Septième Art, con sede al Vieux-Colombier) la nuova versione di La roue venne presentata nel 1924 con il titolo di Tableaux modernes de la machine vivante. La volontà di Canudo, di Léger e di tutti gli artisti membri del CASA era quella di sfuggire all’influenza del racconto, a qualsiasi forma drammaturgica riconducibile al teatro o alla letteratura melodrammatica, per immaginare un cinema puro, liberato dalle costrizioni della narrazione e dall’empatia generata dai personaggi. È però probabile che Ballet mécanique abbia un’origine precedente a La roue. Nel 1919 Fernand Léger e Blaise Cendrars ebbero un’idea per un libro, La fin du monde filmée par l’Ange Notre Dame. Titolo incredibile e stravagante per un libro-oggetto, una sorta di immenso flip-book il cui grande formato permetteva ai due autori di sperimentare proporzioni spaziali, metamorfosi di forme astratte e un’innovativa commistione di testi e immagini. Probabilmente La fin du monde filmée par l’Ange Notre Dame costituisce la matrice comune a Ballet mécanique e a La roue: i testi sovraimpressi sui ritmi colorati di Léger fanno pensare alle didascalie in sovraimpressione sui binari che scorrono con ritmo ipnotico in La roue (vale la pena ricordare che Cendrars fu l’assistente di Gance per questo film).
Ballet mécanique rispecchia il tentativo di Léger di realizzare un nuovo tipo di rappresentazione attribuendo dignità spettacolare all’organismo meccanico. Rinuncia a qualsiasi movimento della macchina da presa, ritenendolo comunque inadeguato a sottolineare la singolarità della rappresentazione cinematografica e a caratterizzarne la modernità. Per lui “il solo fatto di proiettarne l’immagine qualifica già l’oggetto”.
montaggio non è più al servizio della logica narrativa, ma produce il ritmo della composizione in movimento. Il primo piano è esaltato in quanto sguardo strutturale di primaria importanza: “Il bottone di un colletto staccabile, illuminato e proiettato cento volte più grande di quanto sia in realtà, diviene un pianeta irradiante [..].
Interpreti: oggetti vari, Katherine Murphy, Kiki de Montparnasse, Fernand Léger, Dudley Murphy.